Una “buona causa” per fare fund raising

Raccogliere fondi, mezzi, risorse. Sì, ma per cosa? Soprattutto, perché un soggetto – potenziale donatore – interpellato per “dare”, dovrebbe accogliere la richiesta ricevuta?

Abbiamo parlato di fund raising come costruzione di relazione fra chi deve trasmettere un messaggio relativo allo scopo per cui si richiede un finanziamento e chi deve rispondere ad esso. Si coglie intuitivamente l’importanza fondamentale che ha lo scopo per cui io chiedo. Ecco, questo concetto, intuitivo e banale, è in realtà un asse portante del fund raising: la Buona Causa. Si tratta del buon motivo per cui qualcuno dovrebbe avere intenzione e voglia di ascoltare la nostra richiesta ed assecondarla; la mission, dunque, ma dal punto di vista del donatore, che deve quindi contenere tutti gli elementi necessari a far nascere il senso di condivisione e accettazione della richiesta ricevuta.

La Buona Causa, per essere efficace, deve pertanto essere semplice e convincente, essendo il sostrato su cui poggia la comunicazione dell’organizzazione che sta facendo fund raising. Vale la pena insistere su questo aspetto che, pur nel suo essere fondamentale, è spesso trascurato, probabilmente dato per scontato da chi si dedica ad una o a molte attività per cui chiede sostegno a terzi. E’ un corto circuito comunicativo frequente: l’organizzazione (parliamo di no profit, o volontariato, ad esempio) nata per realizzare iniziative e progetti contro la discriminazione verso Tizio e Caio è così emotivamente motivata e consapevole delle esigenze e delle problematiche di Tizio e Caio e così convinta della bontà e qualità delle iniziative che vuole realizzare per sensibilizzare il mondo su questo tema, che (spesso inconsciamente) presuppone più o meno la stessa consapevolezza anche in chi riceve una richiesta di sostegno, e trascura (può anche non esserne capace) di delineare con la massima chiarezza cosa sta facendo, cosa vuole, perché.

Quindi: l’organizzazione ha un gran bel progetto, ci crede fortissimamente e si rivolge all’esterno per cercare un sostegno scontato, così scontato (per l’organizzazione) che non si spiega adeguatamente con gli uditori esterni, i donatori.

Oppure, caso parzialmente diverso, altrettanto frequente: l’organizzazione è convinta di sapere perché esista, cioè quale sia il suo scopo e le azioni da realizzare, ma non lo è del tutto, e non è quindi in grado di essere coinvolgente all’esterno. Occorre ricordare che stiamo parlando di aggregazioni di persone: la cosa più ovvia che succeda è che non tutte abbiano la stessa idea, inconsapevolmente l’una dall’altra, o meglio ciascuna è convinta che quella degli altri coincida con la propria. Non è sempre così, e “da fuori si nota”.

Stiamo quindi definendo il carattere strategico della Buona Causa: averla, riconoscerla, definirla, trasmetterla. In quattro passaggi verbali è racchiuso un nucleo imprescindibile per fare fund raising e per farlo bene e consapevolmente. Quattro passaggi non significa che sia semplice: le variabili in gioco, gli elementi di contesto e di “disturbo” sono diversi e non facili da individuare e comporre. Si tratta di uno sforzo analitico in realtà indipendente dalla necessità o volontà di raccogliere risorse da terzi; un esercizio mirato, per così dire, a delineare la “carta di identità” dell’organizzazione, per usare un’immagine che renda conto di quanto da essa dipenda in realtà l’essenza stessa e l’azione del soggetto. Carta d’identità, fotografia, biglietto da visita: sono oggetti che hanno in comune un aspetto, rappresentano, in forma scritta e visiva, qualcuno agli occhi di qualcun altro. La stessa cosa vale per la Buona Causa, che per essere efficace e immune dai rischi di gap percettivo o comunicativo di cui abbiamo detto, dovrebbe essere tradotta – “rappresentata” formalmente – in un documento (il cosiddetto Documento di Buona Causa).

Il problema è che scattarsi o farsi scattare una fotografia, come avere una carta d’identità, è ormai pressoché automatico o comunque non richiede particolari sforzi. Formalizzare la propria Buona Causa è sforzo di tutt’altra portata. Constatiamo, nella pratica, le criticità legate alla difficoltà di analizzare e definire sé stessi (come organizzazione). Ma di questo parliamo, prevedendo tra l’altro un certo rigore negli aspetti da inquadrare: la missione, gli obiettivi strategici e non solo, l’organigramma, progetti realizzati e in programma, bilanci e altri aspetti quantitativi, indicatori di valutazione.

Questo approccio può comportare una reazione del tipo “no, grazie, niente autocoscienza”, con il rischio di uno scarto nella direzione (e nel difetto) opposta: partire lancia in resta a fare cose senza sapere esattamente cosa e perché. Capita spesso, però, che tertium non datur, nel senso che non ci siano grosse vie di mezzo: nel momento in cui chiunque riceva una richiesta di risorse da parte di qualcun altro, la prima domanda, espressa o no, come dicevamo in apertura è: per che cosa? Ecco, avere a chiare lettere una Buona Causa è un ottimo modo per sapere rispondere o, addirittura, prevenire la domanda.

Simona Biancu – Alberto Cuttica